Requiem for a dream, tutto il nichilismo di Aronofsky

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Requiem for a Dream Genere: Drammatico Regia: Darren Aronofsky Cast: Ellen Burstyn, Jared Leto, Marlon Wayans, Jennifer Connelly, Hubert Selby Durata: 102 min. Anno: 2000

v1.bTsxMTE3ODAzMDtqOzE3MDM0OzIwNDg7ODAwOzEyMDASara Goldfarb è una casalinga vedova e depressa le cui uniche attività consistono nel guardare il suo programma preferito in tv e conversare amabilmente con le vicine. Suo figlio, Harry, è un tossicodipendente che, insieme al suo amico Tyrone e alla sua ragazza Marion, vive di espedienti e cerca in continuazione qualunque mezzo per procurarsi la droga.

Requiem for a Dream è forse la pellicola dove più di tutte ritroviamo il fatalismo esistenziale del regista Darren Aronofsky. Il film si sviluppa su tre atti denominati come le stagioni dell’anno (Estate, Autunno e Inverno) ma che metaforicamente si riferiscono a tre periodi diversi – per felicità e aspettative – vissuti dai protagonisti. Manca volutamente come atto conclusivo la Primavera, stagione simbolo della rinascita e della vittoria della vita sulla morte, come a sottolineare l’ineluttabilità del destino dei personaggi e il loro progressivo e inesorabile fallimento.
A livello tecnico segnaliamo un utilizzo sapiente del time-lapse per evidenziare lo smarrimento provato dai protagonisti, e contestualmente, un uso estensivo dello split-screen come se il regista volesse ogni volta proporre delle composizioni di dettagli ritenuti da lui fondamentali, cosa  che una sola inquadratura non avrebbe permesso. Inoltre, il montaggio scandito da scene brevissime e cadenzate, permette ad Aronofski di conferire nello spettatore un senso di frenesia davvero efficace per questo tipo di film.

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Essenzialmente la pellicola racconta parallelamente due storie: la prima, quella di due ragazzi (Jared Leto e Marlon Wayans) proiettati verso un futuro incerto e nebuloso che, costretti a fargli fronte, cercheranno di crearsene uno ex novo attraverso dei canali alternativi (e illegali). La seconda, invece, riguarda la mamma di uno dei due ragazzi (una fantastica Ellen Burstyn) che fagocitata dal passato nostalgico e – a suo dire – felice cercherà di ricrearlo e riviverlo ma distruggendo di fatto se stessa.
Nella prima storia è impossibile non notare una forte critica alla società postmoderna, quella che noi oggi viviamo: l’epoca delle frenesia dove tutti siamo nostro malgrado proiettati verso un futuro indefinito fatto di obiettivi a breve termine, ma che una volta raggiunti, non conferiscono un reale appagamento ma solo un senso di incompletezza e di estraneità verso il mondo in cui viviamo dove niente sembra avere senso. La conseguenza è una cupa depressione preceduta da un’inspiegabile isteria che porta molti giovani verso la strada della devianza.

Con la seconda storia, forse con ancora più maestria, il regista newyorkese infierisce contro la nostra società dell’immagine, una società ossessionata da quest’ultima e dai modelli di bellezza e perfezione che non fa altro che alienare la psicologia umana, il che ci rende il prodotto di quello che i media propongono, reificando di fatto una forma di schiavitù contemporanea.

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Il film, in ogni caso, gravita per tutto il tempo intorno all’utilizzo delle droghe e sulle conseguenze che da siffatto consumo ne derivano. Ma non è tutto qui, il film è un messaggio forte contro ogni forma di ipocrisia: non esistono dipendenze buone o dipendenze cattive, non esiste un limite se non quello sancito (unilateralmente) dalla legge che decide cosa è legale e cosa non è. Potenzialmente tutto può renderci dipendenti e portarci quindi alla distruzione. Dunque tutto può essere “droga”, ma cosa più sconcertante, è che esistono tante droghe ampiamente legalizzate che mietono più vittime di quante si possa pensare.

★★★★

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